Sulle trivelle nel Mare Adriatico non è possibile essere pessimisti ne ottimisti, perché le informazioni sono assolutamente insufficienti. Perciò si rende necessario mantenere assoluta imparzialità, almeno fino a dopo un attento esame dei dati prima di pronunciarsi con un’analisi specifica.
Un semplice accesso agli atti in Europa ha dimostrato il peggior panorama possibile: nel caso in cui ovunque in questo paese si dovesse procedere all’installazione di nuovi impianti per l’estrazione di idrocarburi, sarebbe un disastro annunciato.
Ecco perché.
Mentre da un lato abbiamo una politica che si sbraccia a rassicurarci, dall’altra decine di articoli ed esperti ci avvisano di quale enorme problema ci sia sotto le trivelle.
Innanzitutto, cosa ci è dato sapere sulle trivelle, sugli impianti di estrazione di idrocarburi in Italia?
Da parte di una certa politica abbiamo nulla di più che le rassicuranti affermazioni di come le trivelle “sono diventate estremamente sicure, soprattutto necessarie“, anche se poi questa dichiarazione è contornata da decine di valutazioni soggettive ed obiezioni oggettive.
L’affermazione che più si riscontra nelle relazioni ministeriali assomiglia a quella che accompagnava i propositivi del nucleare, ossia: “le successive generazioni di impianti sono li a dimostrare di essere divenute parte di una procedura ormai assolutamente sicura“. Parrebbe quindi da questi documenti che il governo possa affidare i nostri territori a società private per l’estrazione e che, anzi, siamo in ritardo. ”Sarebbe stupido non approfittarne” – “possiamo raddoppiare l’estrazione in meno di 5 anni” – queste le dichiarazioni in merito fornite dal presidente del consiglio non eletto… però attenzione, la necessità di base è sempre la crescita.
Tutto questo appare scritto a chiare lettere; nei documenti che accompagnano le relazioni dei vari ministeri; nelle deduzioni che corredano le valutazioni di impatto ambientale presenti nel decreto #SbloccaItalia, ad opera del #GovernoRenzi; nelle dichiarazioni dei politici che sono stati chiamati a pronunciarsi in merito.
Nessuno di questi che accenni specificatamente ad una cautela, come vorrebbe il principio di precauzione. Soprattutto nessun accenno all’eventualità che qualcosa possa andare storto, come se il problema proprio non esistesse. Già questo di per se pone un grosso dilemma, anzi, un sospetto. Come mai non viene valutato minimamente il rischio ambientale? Hanno evidentemente già dimenticato cosa è accaduto in Messico con la BP Oil e ciò che potrebbe configurarsi da noi.
Ma forse qualcuno lo sa, lo ha già verificato, tant’è che ad esempio nella Legge 239/2004 ( art 1, comma 5), si specifica proprio il diritto alla compensazione, ossia di “..stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuano misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi di politica energetica nazionale.”, ossia una specie di rimborso per gli eventuali danni – danni garantiti – e chi conosce la pratica saprà già che stiamo parlando di una formula come l’Indennità di Disagio Ambientale che sta producendo enormi guai anche qui in Emilia Romagna, obbligando gli enti locali a eseguire opere di “abbellimento” con strade, alberature e spazi giochi, ma gli impedisce di analizzare la qualità dell’aria e permettere studi svolti da enti e strutture terze per determinare il reale impatto degli inceneritori e l’attuale livello di pericolosità ambientale.
Il modo in cui viene intesa la precauzione dalla politica attuale, è quindi di tipo compensatorio. Ossia prevede già un danno a priori e lo dequalifica con bonus palliativi.
Esempio limite: se un determinato agente chimico immesso sul mercato provocasse il raffreddore, per assurdo, con l’approvazione di questo tipo di politiche, avrebbero sicuramente inserito nella legge di compensazione che amano adottare, non l’aspirina, bensì delle caramelle al miele.
Ma andiamo avanti e vediamo che basta invece eseguire una semplice ricerca di Google per avere materiale di studio utile sul tema per i prossimi mesi.
Esperti e delegati ministeriali valutano attentamente la questione sotto diversi aspetti, tutti favorevoli agli impianti, mentre altri prediligono il fattore di tutela ambientale, come ampiamente documentato dal segnale di allarme diffuso dalle associazioni ambientaliste, WWF, Legambiente e Greenpeace.
La costante comunque appare sempre la stessa, sia che siano a favore che contro le prospezioni e le trivellazioni. Perché di tutti questi aspetti ne manca sempre precisamente uno: l’analisi storica dei dati. Come se mancassero i precedenti o peggio, come se volessero ignorarli appositamente.
Valutare il grado di pericolosità degli impianti sotto un aspetto prettamente scientifico, basandosi su dati certi e non solo sulle opinioni o sulla normativa.
Quindi, in tutte queste ricerche, relazioni, analisi, controdeduzioni, manca sempre il dato certo basato sull’indagine e non sull’opportunità o meno di valutare un possibile rischio.
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